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Nel 1978 entrava in vigore la legge 180, che di fatto ha portato alla chiusura dei manicomi. Attraverso le storie di chi ha subito contenzione ed elettroshock, ecco un excursus di quella che è la salute mentale oggi. E anche se non c’è più nessun ospedale psichiatrico con reti e filo spinato dove poter rinchiudere i "malati", esiste ancora il rischio di nuove forme di esclusione, meno evidenti e più nascoste ma con identici meccanismi di privazione dei diritti della persona
Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala
Ma «quale casa? Io non ce l’ho mai avuta una casa. Franco Basaglia è stato bravo, perché se non chiudeva i manicomi io stavo ancora lì dentro». Pina ha 71 anni e ha passato metà della sua vita a Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma. Aveva cinque anni quando è stata internata: forse per un disturbo dell’apprendimento, forse per le condizioni di indigenza della famiglia. Come la maggior parte degli ospedali psichiatrici concepiti all’inizio del Novecento, il Santa Maria della Pietà era una città nella città: 34 padiglioni che ospitavano tremila persone. In ognuno vivevano circa 50 pazienti psichiatrici, guardati a vista da due infermieri. A destra c’erano gli edifici degli uomini, contrassegnati da numeri pari, e a sinistra quelli per le donne. In mezzo una rete metallica. Tra i viali alberati dei 150 ettari di parco c’era il padiglione 17, per le agitate. L’11 e il 12 erano destinati ai malati pericolosi, il 22 ai "sudici" e il 90 ai bambini. Non esistevano limiti di età per il ricovero in manicomio: era sufficiente un certificato medico in cui si dichiarava che il minore era pericoloso per sé o per gli altri.
Dal 1913 al 1974 nel manicomio di Roma sono stati internati 293 bambini con meno di 4 anni e 2.468 minori tra i 5 e i 14 anni. Come si legge nel libro di Enzo Sartori, Bambini dentro. I minori in ospedale psichiatrico nel XX secolo: il caso del Santa Maria della Pietà di Roma, la maggior parte dei i bambini ricoverati aveva problemi a carico dello sviluppo psichico, deficit dovuti a malattie organiche con sintomi neurologici (come l’epilessia) o a malattie che interferivano sullo sviluppo psichico, come l’ipotiroidismo congenito. C’erano poi bambini con sordità, cecità e con la sindrome di Down. Se non morivano entro pochi anni dall’ingresso in manicomio, diventavano ospiti cronici passando ai padiglioni degli adulti.
Come è successo a Pina, che a 16 anni è stata spostata nel padiglione delle agitate. Dimessa nel 1978, ha vissuto per un periodo alle Quattro Palme, una delle comunità nate poco lontano dal manicomio. Poi è stata trasferita in un’altra struttura insieme a dieci ex internati, tra cui Rossana, la compagna di una vita. Dal 2013 dividono la stessa stanza in una casa di riposo, a pochi chilometri dal Santa Maria della Pietà. «Se non fossi stata ricoverata lì a Monte Mario, starei bene»: Rossana aveva 22 anni la prima volta che è entrata in manicomio, nel 1964. Era sposata e aveva un figlio. È stata più volte "dimessa in esperimento", grazie all’articolo 66 del regolamento manicomiale.
«Mio marito mi diceva che stavo male – racconta Rossana –, io gli dicevo che stavo bene. Ma mi hanno preso e mi hanno messo lì». Nella sua cartella clinica, conservata tuttora negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico, si legge la diagnosi: schizofrenia. E tra le
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